Dieci anni fa ci lasciava un mito senza tempo, amato anche da chi, come me e tanti altri tifosi nati dopo gli anni ’60, non ha avuto la fortuna di vederlo giocare o di vivere la sua epoca. Perché, anche a tanti anni di distanza, la figura di George Best conserva ancora un fascino mai raggiunto neanche da altre leggende del calcio.
Era il 25 Novembre 2005 quando, a Londra, in una giornata destinata a lasciare un vuoto tremendo nei cuori di tutti i tifosi del Manchester United e di tanti appassionati di calcio, Best lasciò definitivamente questo Mondo per volare in cielo, dove – al di là di tutti gli errori che può aver commesso da uomo – avrà sicuramente trovato un posto in paradiso. Sì, perché io un ipotetico paradiso senza George Best non riesco proprio ad immaginarlo. Anzi, non voglio immaginarlo.
George se n’è andato proprio nel periodo in cui cominciai ad avvicinarmi al Manchester United, diventandone, quasi un mese dopo, tifoso a tutti gli effetti. Non ho avuto neanche il tempo di sognare di poterlo incontrare e di stringergli la mano. Non avrò mai questa fortuna, purtroppo.
Ma, come ogni tifoso dello United, ho una fortuna comunque grande: quella di poter conoscere e di rivivere la sua storia, attraverso filmati e racconti che, seppur di un’epoca ormai lontana, lasciano veramente il segno. Best è arrivato allo United da ragazzo timido, anche un po’ insicuro, ma la sua voglia di emergere e di mostrare a tutti il proprio talento lo ha portato a scrivere la storia. Quella storia che, anche se è rappresentata per lo più da immagini in bianco e nero (ben lontane dalla qualità HD dei nostri giorni), riesce comunque a colpire l’occhio e il cuore come poche cose al Mondo.
Best aveva il dono di saper accarezzare la palla e di saltare l’uomo con un’eleganza spaventosa, spesso affrontando avversari duri, che cercavano invano di limitare il suo talento con interventi decisamente poco teneri. George ha dovuto imparare anche l’arte dell’auto-controllo, perché quelli come lui hanno sempre ricevuto un trattamento particolare da chi, di fronte alla grandezza di un fuoriclasse, non può far altro che ricorrere a metodi assai arcaici.
Grazie anche a punti fermi come Sir Bobby Charlton e Denis Law, ma soprattutto grazie all’uomo che ha creduto in lui sin da subito, il grande Sir Matt Busby, Best è riuscito a tirar fuori il meglio di sé sin dagli esordi ed è riuscito ad incantare l’Inghilterra e l’Europa intera con i suoi dribbling, i suoi goal, la sua visione di gioco e quella fantasia piuttosto rara per un calciatore britannico. Se oggi ognuno di noi sogna di emulare le gesta di un campione, magari vedendo una sua giocata o un suo bel goal in televisione o su YouTube, all’epoca chi sognava di diventare un grande calciatore imparava a trovare l’ispirazione giocando per strada o nel cortile di casa propria. Era difficile inventarsi qualcosa e solo chi aveva davvero fantasia e talento riusciva a tirar fuori delle giocate capaci di stupire il pubblico.
Uno dei motivi che hanno reso George Best un calciatore unico è proprio questo: lui è riuscito a diventare una vera e propria icona senza bisogno di ispirarsi a qualcuno; è semplicemente rimasto sé stesso, forse anche troppo, fino alla fine dei suoi giorni. Lui era così: non amava i copioni già scritti, amava improvvisare e creare dal nulla qualcosa che potesse lasciare il segno.
Come, ad esempio, presentarsi davanti al portiere, saltarlo e depositare con eleganza la palla in rete in una finale di Coppa dei Campioni, a Wembley, contro una squadra come il Benfica di Eusébio, quasi come se si trattasse di una di quelle partite che giocava in strada da bambino. Un goal che, insieme ad una doppietta di Sir Bobby Charlton e ad una rete di Brian Kidd, permise al Manchester United di diventare per la prima volta Campione d’Europa nel 1968 e di realizzare quel sogno che Busby stava per realizzare già dieci anni prima, quando la tragedia di Monaco di Baviera levò allo United dei giocatori che sembravano destinati a fare la storia.
Quella storia che Best, per fortuna, è riuscito a scrivere, vincendo anche il Pallone d’Oro nello stesso anno. Ma il suo modo di essere lo ha portato ad una serie di eccessi che hanno probabilmente limitato la durata del suo successo. Sembrava tutto perfetto; dopo due titoli di Campione d’Inghilterra, la vittoria della Coppa dei Campioni, con tanto di goal in finale a Wembley e, in precedenza, al grande Real Madrid in semifinale, e il Pallone d’Oro. Ma proprio da lì, purtroppo, la carriera calcistica di Best cominciò a calare drasticamente.
Le donne, le luci della ribalta, i problemi con l’alcool e, di conseguenza, quelli con la squadra, che portarono ad una dolorosa separazione nel 1974. Una separazione che Best (tanto per dimostrare, semmai ce ne ancora fosse bisogno, la bontà del personaggio) ha vissuto piangendo disperatamente perché quella maglia, quel pubblico e quello stadio che lo ha visto crescere e diventare il più grande calciatore del Mondo (definizione che gli fu data anche da un certo Pelé all’epoca) erano la sua vita. Una vita vissuta senza regole, se non quella di essere sempre sé stesso.
Molti, come il sottoscritto, sicuramente si saranno chiesti almeno una volta: cosa avrebbe potuto fare, se avesse avuto un atteggiamento più professionale? Ma, col tempo, sono arrivato alla conclusione che George Best è stato grande esattamente perché è stato George Best in tutto e per tutto. Con un carattere diverso, forse, non sarebbe mai diventato il mito che conosciamo ora perché in campo, infondo, lui non faceva altro che mettere in mostra la sua fantasia e il suo lato poetico. Avrebbe anche potuto segnare di più, se non avesse puntato troppo sull’estetica, ma lo avremmo amato allo stesso modo? Io credo di no.
Allora, forse, anche se fa male non vederlo ancora insieme a noi, magari seduto in tribuna vicino a Sir Bobby Charlton mentre segue i ragazzi che hanno l’onore di indossare la maglia che lui stesso ha contribuito a rendere magica, è giusto che Best sia stato Best fino alla fine. Fino al suo drammatico “fischio finale”. Infondo, lui non è ancora vivo dentro ognuno di noi.
E come recitava un famoso striscione: Maradona good, Pelé better, George Best.
Marco Antonucci